martedì 12 maggio 2020

Le consolazioni della cultura (XI)


Intervista a Enzo Bianchi 

Sul numero del 1° maggio di Robinson, supplemento culturale de "La Repubblica", Antono Gnoli ha intervistato Enzo Bianchi, ex priore della Comunità monastica di Bose.

Dopo una ampia serie di domande sui problemi contingenti  collegati alla paura ed in particolare alla paura degli immigrati, Gnoli domanda:

C’è  un altro aspetto che sembra emergere in questi tempi la paura di dire la verità, di parlare chiaro, senza ambiguità o almeno senza eccesso di contraddizione.  Hai l’impressione che si stia inquinando il dibattito politico?

Bianchi risponde: C’è una parola che torna spesso sulle mie labbra, anche a causa della mia formazione di biblista, è parresia. È la virtù della libertà e della franchezza. Sapendo che questa non si mendica, ma si esercita innanzitutto attraverso la parola.  

Una parola chiara e diretta?

Parresia è il parlare superando l’inibizione della paura. Mio padre insisteva molto sul “saper dire sempre ciò che si pensa, a costo di patirne”. Personalmente ho fatto esperienza di quanto si paghi soprattutto nella chiesa, l’essere persone che parlano con parresia. Si dà fastidio a quelli che non prendono mai posizione, ai vili e agli ignavi, a quanti sono abituati a rinnegare se stessi ben prima di rinnegare gli altri.

[...]

L’intervista  termina con una domanda di Gnoli

C’è la frase di un autore che ti accompagna?

È un pensiero di Bernardo di Chiaravalle: "l’amore basta a sé stesso. Vale a dire ciò che conta è di avere amato, non conta se l’altro non ha ricambiato o ha tradito”.

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Parlando con parresia dirò che per me questa è una risposta da monaco (uomo solo),  del tutto simile a quanto diceva Kierkegaard: "Amare è agire in modo da non ottenere nulla in cambio”.  Appunto, un mistico.  

Quando facevo l’avvocato e frequentavo il mondo delle adozioni di minori mi trovavo spesso di fronte alla pretesa dei Giudici Minorili e soprattutto delle Assistenti sociali  perché  i potenziali genitori adottivi manifestassero la loro “oblatività” cioè la loro disponibilità a soddisfare i bisogni e gli affetti altrui senza attendersi necessariamente  un contraccambio. Mi sembravano e mi sembrano tuttora  impostazioni psicologiche non solo irrealizzabili ma anche in un certo senso dannose perché sono al limite del solipsismo (ognuno per conto suo) nei rapporti affettivi interpersonali.   A.S.

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Un quadro di Picasso ("Madre e figlio saltimbanchi" 1905) che raffigura la genitorialità in un momento in cui non c'è il celebre sguardo di riconoscimento e vicendevole che c'è di solito nelle rappresentazioni. Questo l'amore genitoriale "gratuito", quello necessario per non veder nel figlio creta da plasmare a proprio piacimento, ma un individuo altro da noi, da amare non per un riconoscimento e soddisfazione personale, ma perché riesca a reggersi sulle proprie gambe stabile anche se su sentieri differenti da quelli genitoriali. L'agire giustamente del figlio non perché qualcuno lo vede o per sentirsi dire bravo, ma perché viene considerato giusto in se stesso, questo credo che sia il traguardo più difficile e auspicabile. P.B.




Pablo Picasso, Madre e figlio saltimbanchi, 1905